5 Minuti con Cristo
Descrizione

Queste riflessioni spirituali sono state scritte da Adriana Roselli Filippello, membro della comunità avventista di Roma Lungotevere Michelangelo, durante la sua lunga vita di fedele testimone del Signore.

Ringraziamo i famigliari della sor. Filippello che nel ricordo della loro amatissima mamma, ci hanno fatto dono di questo diario che, ci auguriamo, possa essere di incoraggiamento per coloro che vorranno leggerlo.

(Elaborazione a cura del Servizio Terza Età della Chiesa Cristiana Avventista del Settimo Giorno)

L’apostolo Pietro nella sua prima lettera cap. 1:17 scrive: “Se invocate come Padre colui che giudica secondo l’opera di ciascuno, conducetevi con timore durante il tempo del vostro pellegrinaggio.” Dunque Dio è un Padre, e come un Padre, possiamo invocarlo avvicinandoci a Lui con gratitudine con fiducia. Non pensiamo però che il suo amore paterno lo induca a chiudere gli occhi sui nostri peccati e a considerare le nostre mancanze e le nostre colpe con debole indulgenza. Dio è Padre, ma è anche Giudice e non può non esserlo. Di fronte a questi concetti dell’amore e della giustizia di Dio, noi rimaniamo perplessi perché non sappiamo come conciliarli, noi parliamo di queste due perfezioni dell’Eterno limitandole entro certi confini, mettendole in contrasto l’una con l’altra e supponendo che Dio agisca ora a nome dell’una, ora a nome dell’altra esclusivamente. Ma noi sappiamo che Dio è Amore e che è anche Giustizia, ma dove cominci l’una perfezione e dove essa finisca per lasciare il posto all’altra, e quali siano le sfere d’azione dell’una e dell’altra non lo sappiamo. L’assoluta perfezione dell’Eterno consiste nella penetrazione reciproca di tutte le sue singole perfezioni. Se Dio operasse come noi meschine creature umane supponiamo che operi, Egli non potrebbe esercitare la sua giustizia senza ledere il suo amore, né il suo amore senza ledere la sua giustizia. Se Dio ama, non ama Egli con giustizia? Se Dio giudica, non giudica con amore, e per un amore supremo che sfugge alla nostra umana comprensione? Allora lasciamo a Dio, tutto amore e tutta giustizia, il pensiero di conciliare l’amore e la giustizia, ed aspettando che la nostra mente e il nostro cuore si aprano a una più grande saggezza e a un più grande amore. Speriamo immensamente nella carità infinita e tremiamo dinanzi all’inesorabile santità. Se vogliamo evitare il Suo giudizio non offendiamo il Padre che ci ha tanto amato da donarci Gesù, il nostro unico e personale Salvatore. Non ci conformiamo alle cattive abitudini e al cattivo uso della nostra esistenza, ma conduciamoci piamente, giustamente e temperatamente aspettando il beato giorno del ritorno del nostro Redentore che porrà fine a tutte le brutture di questo mondo e a tutte le sofferenze e le malvagità che avvelenano la nostra vita e la vita di tutti gli esseri umani.

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Luca, nel suo vangelo al cap. 7:19, racconta un episodio della vita di Giovanni Battista che, essendo in prigione, chiamò a sé due discepoli e li mandò al Signore. Perché? ci domanderemmo noi. Perché un dubbio tremendo era venuto a insinuarsi nel suo cuore. Questo dubbio era stato causato dalla forzata inazione del carcere, dal pensiero della sua opera interrotta così improvvisamente, dal fatto che egli non vedeva il Regno del Messia stabilirsi con potenza e che il trionfo dell’iniquità sembrava assicurato. Allora egli mandò due suoi discepoli da Gesù per domandargli: “Sei tu colui che ha da venire, o ne aspetteremo un altro?” Il dubbio momentaneo del Battista riguardo a Gesù assomiglia al dubbio di altri uomini riguardo al cristianesimo, di uomini che avevano creduto, che s’erano inginocchiati davanti alla croce, che avevano offerto al Signore le loro energie, e avevano conosciuto la sua pace e la sua gioia, ma che poi, in un’ora di cupa angoscia, avevano veduto calare sulla loro vita le tenebre fredde ed implacabili del dubbio. Il dubbio che assilla, che logora con un pensiero irrequieto e continuo. Ma se un tale dubbio dovese assalirci, imitiamo il profeta. Non ci rassegniamo a esso, ma cerchiamo di risolverlo ad ogni costo, e per far questo non ci limitiamo a interrogare noi stessi, i nostri amici, i nostri maestri, o i volumi della nostra biblioteca: rivolgiamoci direttamente a Gesù. Presentiamogli il quesito che ci tormenta, le nostre sofferenze, i nostri disinganni, la nostra fede che vacilla, e le stesse tenebre che hanno oscurato la nostra via. Non parliamo del nostro dubbio con altri, parliamone a Lui solo in uno di quei colloqui che ridanno al cuore la pace e la serenità. Parliamone con Lui solo, diciamogli tutto quello che ci agita, che ci travaglia, che ci nasconde la visione di Dio e della sua misericordia. Parliamone con Lui solo ed Egli ci risponderà come fece al Battista facendoci assistere ai miracoli della sua grazia e richiamando di nuovo la nostra attenzione sui tesori dell’Evangelo che è annunziato ai poveri. E come il Battista, ritroveremo la pace negli abissi della divina carità e della divina luce.

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L’autore dei Salmi, in un momento di profondo dolore, nel Salmo 22 esclama dolorosamente: “Dio mio, Dio mio, perché?” Questa è l’ansiosa domanda che di fronte al male è spesso salita dal nostro cuore tormentato. Perché Dio onnipotente e buono ha permesso la sofferenza? Perché dobbiamo assistere impotenti alla rovina del corpo e allo strazio infinito del cuore? Perché questo viatico del dolore che ogni creatura umana trascina con sé dalla culla alla tomba? Non cerchiamo di rispondere da noi stessi. Chi mai potrebbe risolvere questo problema con le sue limitate facoltà spirituali? Quindi non fermiamoci a investigare rendendo così ancor più acuto il tormento con una ricerca inutile. Abbandoniamo la pretesa della ricerca della ragione che spesso si smarrisce nel buio, e rifugiamoci invece negli abissi della fede. Se crediamo nell’amore infinito del Padre Celeste, il problema della sofferenza non ci deve preoccupare più perché in Gesù il potere della sofferenza è vinto. Gesù è morto per noi, ha vinto il potere di Satana e ci è vicino nel dolore. Vi sono delle realtà, a proposito del dolore, che la nostra esperienza cristiana rende assolutamente certe. Se crediamo all’amore di Dio, quando siamo colpiti dal dolore, nella fede troveremo una consolazione immensa. Il dolore diventa per noi la scuola misteriosa in cui agisce e insegna il Divino Maestro. E anche, nel dolore, possiamo godere di una migliore e benefica spiritualità, uniti come siamo al nostro Padre che ci ama e ai nostri fratelli che soffrono con noi! Sappiamo che il dolore e la sofferenza ci vengono dal nostro nemico, Satana, ma Dio ci è vicino e fa in modo che anche dal male venga fuori una qualche benedizione. Di fronte al dolore, la fede sviluppa in noi una maggiore energia che ci dà la possibilità di reagire, di resistere e di superarlo vittoriosamente. Grazie Signore per tutto quello che fai per noi.

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Nel Salmo 143:8 l’autore fa una richiesta a Dio: “Fammi conoscere la via per la quale devo camminare.” Due sono i casi nei quali innalziamo questa preghiera all’Eterno: quando non vediamo alcuna via d’uscita, alcuna soluzione al nostro problema, oppure quando ci si presentano più vie e restiamo in forse, dubbiosi, non sapendo quale sia la migliore, quella che ci conviene scegliere. Sia in un caso che nell’altro, la preghiera è originata da una profonda ignoranza e debolezza. Noi non sappiamo nulla e non possiamo nulla! Abbiamo bisogno di una luce divina che illumini la nostra mente e fortifichi la nostra volontà: “O Dio fammi conoscere la via per la quale devo camminare!” Quante volte abbiamo sbagliato strada perché confidavamo soltanto nella nostra saggezza! Quante dure esperienze abbiamo fatto perché, prima di metterci in cammino, non avevamo riflettuto e non avevamo pregato con fervore Dio di condurci per mano! Poiché questo è certo, quello che noi non sappiamo, Dio lo sa. Egli che conosce il presente e il futuro, sa che cosa è meglio per noi. Egli sa qual è la via, non soltanto quella che dobbiamo seguire per provvedere alla nostra esistenza terrena, ma anche quella che dobbiamo seguire per salvarci ed ottenere la vita eterna. E quella via Egli può e vuole indicarla a chi lo implora umilmente e aspetta fiducioso che, in un modo o nell’altro, si manifesti la sua volontà. Per cui chiediamo al Signore che ci tolga da queste gravi incertezze e ci indichi la via da seguire. A volte basta una parola, un tuo cenno, un incidente qualsiasi che ci ammaestri, un ostacolo che sorga, un sentiero che s’appiani, un tenue raggio di luce che ci faccia capire e vedere la strada da seguire, la decisione da prendere. Noi siamo nelle tue mani, Signore, e non vogliamo muovere nemmeno un passo che Tu non approvi e che Tu non benedica! “Facci conoscere la via…!”

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Nel vangelo dell’apostolo Giovanni al cap 8:5 troviamo il racconto della donna adultera trascinata dai farisei nel tempio, davanti a Gesù al quale chiedono di giudicarla. Nel versetto menzionato è scritta la domanda a Gesù: “E tu che ne dici?” Il racconto di questa parabola suscita a volte dei pensieri di commiserazione e di disprezzo, perché pensiamo ai loro peccati e alla loro falsità e forse facciamo dei paragoni fra noi e loro. Ma per una volta facciamo il contrario e pensiamo non solo a ciò che c’era di male in loro, ma anche a quello che vi poté essere di bene in essi. Non è che voglia attenuare le loro colpe, ma solo analizzare un po’ queste persone. Vi sono i farisei pieni di un orgoglio che li acceca, c’è una povera donna caduta lentamente nel fango, eppure, a volte in tali persone può esistere ancora una scintilla di virtù, un piccolo lucignolo fumante, non ancora spento del tutto. E potremo vedere con umiltà che anche gli esseri più orgogliosi o peccatori a volte possono insegnarci qualcosa. Nella condotta dei farisei vi fu di grande che riconobbero francamente, davanti a tutti, il loro proprio peccato. Infatti è scritto che, appena Gesù ebbe detto “Chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra”, essi, ripresi dalla loro coscienza, cominciarono ad uscire a uno a uno. Quindi la loro coscienza li rimproverava ed essi ascoltando la sua voce riconobbero il loro peccato e furono umiliati. Quello che invece fu di grande nella condotta della donna è questo: si pentì del suo peccato. Ne è la prova che quando rimasero soli nel tempio, Gesù le disse: “Neppure io ti condanno, va’ e non peccare più.” Innalzando il nostro sguardo verso la persona di Gesù che riempie di sé tutto il racconto con il suo amore e con la sua santità, umiliamoci e guardiamo dentro noi stessi. Forse in noi c’è, in un angolino, un peccato che avevamo dimenticato. Riconosciamolo francamente davanti a Dio, pentiamoci e impariamo da Gesù, il quale odia il peccato, ma ama il peccatore.

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Nel libro dei Salmi è contenuto uno dei tanti canti dei pellegrinaggi che gli Israeliti elevavano al Signore durante il lungo cammino per arrivare a Gerusalemme in occasione di una delle tre feste che vi si svolgevano ogni anno. La festa della Pasqua, della Pentecoste o quella delle Capanne. Da ogni nazione essi si muovevano, in carovane più o meno numerose, verso la città santa. La via era lunga e difficile e per sollevare gli animi oppressi dalla fatica, i pellegrini pregavano e cantavano traendone beneficio. Alcuni di quei canti o inni, abbiamo la fortuna di possederli e uno di questi è il Salmo 121. E’ il canto di Israele che si accinge a partire per Gerusalemme e che deve affrontare una via aspra e che vede già da lontano idealmente i monti di Sion, e che per raggiungerli dovrà seguire una via piena di pericoli. Leggiamo l’inizio del Salmo: “Io alzo gli occhi ai monti, da dove mi verrà l’aiuto?” Questa è la domanda ansiosa a cui risponde l’affermazione della fede: “Il mio aiuto viene dall’Eterno che ha fatto il cielo e la terra.” Ora anche noi stiamo compiendo un viaggio, è il cammino della nostra vita. Andiamo un po’ indietro nel tempo e guardiamo il cammino da noi già compiuto, disseminato a volte di gioie e a volte di dolori, di cadute e di nuove promesse di miglioramento. Il nostro è un cammino verso la Gerusalemme celeste, che dobbiamo ancora raggiungere, ma non sappiamo quando sarà. La Gerusalemme “fra le cui mura non ci sarà più grido, né dolore, né alcuna cosa maledetta, né la notte, né la morte.” (Apocalisse 21:4) Ma la meta forse è ancora lontana e la strada è piena di agguati, di insidie e di difficoltà, ma non scoraggiamoci, compagni del nostro stesso cammino. Alla domanda “Da dove mi verrà l’aiuto?” rispondiamo con una esplosione di fede “Il mio aiuto viene dall’Eterno.”

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Nel Salmo 103 il re Davide al versetto 2 esclama: “Benedici, anima mia, l’Eterno, e non dimenticare alcuno dei suoi benefici.” Infatti, se rientrando in noi stessi, esaminiamo con calma la nostra vita, ci accorgiamo di quanti benefici Iddio ci ha colmato. Siamo stati benedetti nella nostra salute, o nelle ritrovate energie, o nei nostri affetti o nell’attività della nostra mente o delle nostre braccia, nella nostra vita interiore. Nei giorni tristi e oscuri una mano amica ci ha sorretti, e quando l’angoscia era troppo acuta perché una parola d’uomo la potesse alleviare, Dio stesso ci ha offerto i tesori della sua grazia, invitandoci ad avvicinarci a Lui in preghiera e risollevando così l’animo nostro. Allora possiamo anche noi proclamare con il poeta d’Israele: “L’Eterno ha perdonato tutte le nostre iniquità, ha sanato tutte le nostre infermità, ha redento la nostra vita dalla fossa e ha coronato di benignità e di compassioni, ha saziato di beni la nostra bocca e ci ha fatto ringiovanire come l’aquila.” (Salmo 103:1- 10) E vi sono dei benefici che noi nemmeno conosciamo. A proposito di ciò, c’è un quadro che illustra molto bene la protezione divina nascosta al nostro sguardo. Il dipinto mostra due bambini che, correndo dietro una farfalla, si sono avvicinati, senza accorgersene a un precipizio, ma non si accorgono nemmeno del loro angelo che, lì vicino, stendeva le sue ali su di loro e li proteggeva. E anche noi chissà quante volte saremmo caduti nell’abisso dell’angoscia, della colpa, del dubbio o della disperazione, ma per noi si è sicuramente avverata la promessa di Dio: “L’angelo dell’Eterno s’accampa intorno a quelli che lo temono e li salva.” (Salmo 34:7) Quindi uniamoci al salmista e benediciamo l’Eterno e invitiamo tutto il creato a unire la sua voce alla nostra lode e alla nostra riconoscenza.

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Nell’evangelo di Matteo al cap. 5:8 l’apostolo dice: “Beati i puri di cuore, perché essi vedranno Iddio.” Vedere Iddio vuol dire scorgere dovunque l’impronta di una mente suprema: nelle stelle, nelle onde del mare, nei fiori di campo, in ogni forma di vita, negli assolati pomeriggi estivi, nelle notti silenziose e nella bellezza delle aurore. Vedere Iddio significa vedere una luce diffusa sul nostro sentiero, una mano stesa sul nostro capo, una mano che ci guida e ci sorregge nei momenti d’angoscia e quando la fede vacilla. Vedere Iddio significa sentire che la nostra preghiera è esaudita e io posso testimoniare che oggi ho toccato con mano l’esaudimento della mia preghiera che riguardava un argomento che mi angosciava e per questo ringrazio il Signore con tutto il cuore. Ho pregato con fede, col cuore stretto dalla preoccupazione, ma con la sicurezza che Dio avrebbe cancellato, chiarito i miei dubbi, e la risposta è arrivata subito. Sia lodato Iddio che, non riguardando alla nostra indegnità, esaudisce le preghiere sincere dei suoi figli che non dubitano del loro accoglimento. Vedere Iddio significa sentire il contatto di una potenza rigeneratrice che trasforma la nostra vita, giorno per giorno. In tutto questo c’è una profonda gioia, ma a volte vi sono momenti in cui vorremmo che la nube che ci offusca e l’oscurità che ci avvolge fosse spazzata dal soffio dello Spirito, per conoscere di più, per sapere di più, per non essere turbati e incerti mai più. Vi sono i pensieri della sofferenza, dell’errore, del peccato, della morte e altri tormentosi quesiti che si affacciano alla nostra mente. Ma aspettiamo con pazienza, sorretti da una speranza che non muore, sapendo che otterremo la visione completa oltre la linea oscura. Noi, o Eterno, contempleremo la tua faccia, ci sazieremo, al nostro risveglio, della tua sembianza. Amen.

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Nel 2° Libro delle Cronache cap. 15:2 leggiamo: “L’Eterno è con voi, quando voi siete con Lui.” E’ Azaria, figlio di Obed, che pronunciò queste parole, rivolto al re di Giuda, Asa, e al popolo di Giuda e Beniamino. Queste parole possono essere rivolte anche a noi. Spesso ci lamentiamo dicendo che Dio ci ha abbandonato, che nella nostra vita ci succedono le sventure, e non troviamo requie al nostro dolore… Pensiamo proprio così, a volte: “Dio ci ha abbandonato!” Ma, se dopo aver dato sfogo alla nostra angoscia, consideriamo un po’ attentamente le cose, domandiamoci se non siamo stati noi ad abbandonare Iddio. La presenza del Signore, con tutte le grazie che l’accompagnano, costituisce una gioia che non si può descrivere. Quella presenza però si manifesta a un patto: a patto che noi siamo con Dio e che noi, che siamo solo delle povere faville, rientriamo nel focolare ardente. Forse noi abbiamo abbandonato l’Eterno perché quando si scatenavano le prime bufere, cioè quando avremmo avuto più bisogno di Lui, forse preoccupati di riparare alle situazioni, ci siamo dimenticati di pregare, di affidarci a Lui. Forse quando tutto andava bene, invece di inginocchiarci ed essergli grati per le sue benedizioni, abbiamo anche noi adorato gli idoli davanti ai quali si prostra il mondo, e ci siamo posti da noi stessi fuori dalla sua presenza. Dimenticando l’aiuto che solo Lui poteva darci, ci siamo rivolti agli amici, ai parenti, agli uomini che non possono fare nulla, come non possiamo fare nulla noi stessi. Forse, accogliendo nel nostro cuore certi pensieri impuri, abbiamo distrutto in noi la facoltà di vederlo e di accostarci a Lui. Ascoltando le voci del mondo, non abbiamo più potuto udire la voce celeste. Siamo diventati ciechi e sordi e poi ci lamentiamo di non poter vedere e potere udire la Sua voce. Nessuno e nessuna cosa, nel cielo e sulla terra, può privarci della presenza di Dio, fuorché noi medesimi. Ricordiamo le parole di Azaria: “L’Eterno è con voi, quando voi siete con Lui.”

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L’apostolo Paolo nella sua 2a lettera a Timoteo cap. 4:10 dice del suo discepolo e collaboratore, Dema: “Dema, avendo amato il presente secolo, mi ha lasciato.” Non fu il timore della persecuzione che distolse Dema dai suoi doveri e lo allontanò dall’apostolo, ma l’amore per il mondo, quel mondo che vedeva e che era presente; egli amò più il mondo e i suoi beni perché, essendo presenti, poteva goderne quando e come avesse voluto. E ancora oggi perché si trovano tante persone che si abbandonano senza freno a tutte le gioie pazze della vita, ai cosiddetti piaceri del mondo e trascurano talmente le realtà spirituali, le realtà invisibili dell’avvenire, che esse finiscono per diventare un’assurdità? Appunto perché le gioie e il mondo che le profonde sono presenti e non ci si ferma a meditare, a pensare che tutte queste cose stordiscono per brevi momenti o addirittura per qualche ora, ma che poi, i problemi e le angosce da cui si vuole sfuggire, si ripresentano in tutta la loro realtà e bruttezza. Dema amò il presente secolo, ma questo gli diede forse quello che in fondo all’anima egli cercava? Di lui non si sa più nulla, tuttavia conosciamo la storia dei suoi tempi e possiamo dire con certezza che, se rimaneva ancora in lui qualche nobile aspirazione, essa non poteva venire soddisfatta né alla corte corrotta dei Cesari, né in una filosofia impoverita o nelle beffe di una mitologia che non appagava ormai più nessuno. Ma se non sappiamo ciò che “il presente secolo” abbia dato a Dema, sappiamo quello che possa dare a noi. Sappiamo l’amaro che si nasconde in fondo ai piaceri malsani, ma quello che non sappiamo abbastanza è la gioia profonda che si prova resistendo al male e facendo il bene. Noi tutti andiamo in cerca di felicità, ma sappiamo per certo che un mondo di felicità, a noi ignoto, lo troveremo soltanto nell’azione per il bene e per le idealità dell’avvenire. Forse stiamo attraversando l’ora della crisi, ma se sappiamo da chi l’ha conosciuta prima di noi, che è cento volte meglio la lotta dura e continua, ma tanto luminosa, per la quale si ottiene “la corona della giustizia” additata dall’apostolo Paolo, piuttosto che i piaceri illusori o il soffio di vento del presente secolo, per andare a finire là dove Dema finì: fra le schiere abbiette dei disertori.

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Ancora l’apostolo Paolo scrive nella sua 1a lettera alla chiesa di Corinto, cap. 16:14 “Tutte le cose vostre siano fatte con carità.” Egli dice “tutte le cose”, cioè sia che esortiamo, che educhiamo, che reprimiamo, sia che ubbidiamo, che comandiamo, sia che esercitiamo la nostra professione, sia che difendiamo i nostri diritti o che propaghiamo le nostre idee, facciamolo con carità. Infatti se è il sentimento dell’amore che ispira le nostre azioni, da una parte rende più facile il dovere, dall’altra centuplica il valore e la forza di ogni nostra azione, di ogni nostra virtù. Dunque tutte le cose. Ma, forse, non abbiamo mai pensato a una cosa in particolare: fare la carità con carità. Cioè facciamola con tatto, con delicatezza, spinti soltanto da un grande amore. Che il beneficato non senta in noi la fretta e la noia di chi adempie un obbligo particolare, impostogli forse dalle circostanze. Che egli non abbia mai l’impressione che noi esercitiamo la filantropia per vanità, per egoismo, per calcolo o per qualsiasi altro sentimento che non sia l’amore. Ricordiamo poi le parole dell’apostolo Paolo: “Anche se distribuissi tutte le mie facoltà per nutrire i poveri, se non ho carità, ciò niente mi giova.” 1 Cor. 13:3. E potremmo anche aggiungere che fare la carità senza carità non giova nemmeno a chi è oggetto della nostra beneficenza. Infatti il rimprovero aspro, la parola ingiusta, l’impazienza nella voce o nell’atto, possono distruggere completamente gli effetti morali di un beneficio morale o materiale che sia. Mentre invece vi sono dei casi in cui il nostro amore può recare maggior beneficio e sollievo al sofferente che non il balsamo stesso che offriamo al suo dolore. In ogni nostra sfera cosiddetta di carità, vi sia dunque la fiamma dell’amore, l’energia suprema e sola risanatrice della carità. Perché un soccorso riesca efficace bisogna che, chiunque sia la persona che lo ottiene, veda che la amiamo e che amiamo soprattutto l’anima sua. Se non la amiamo, il nostro aiuto non contribuirà a elevare né lo spirito suo, né lo spirito nostro.

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Nella lettera ai Romani cap. 12:21 troviamo le parole dell’apostolo Paolo: “Non essere vinto dal male, ma vinci il male con il bene.” L’apostolo, dopo aver accennato al male che possono farci gli uomini, ci esorta a non rendere ad alcuno male per male, a non fare le nostre vendette, ma di vincere il male con il bene. Infatti se rendiamo male per male abbandoniamo noi stessi in balìa del male, in apparenza non saremo né vincitori né vinti, ma in realtà siamo degli sconfitti. Se invece rendiamo il bene per il male, il trionfo è sicuro, il nemico da noi beneficato non potrà che arrendersi dinanzi al capolavoro della carità. D’altronde come potremmo noi non agire verso gli altri come Dio ha agito verso di noi? Il Signore ci ha vinto mentre eravamo suoi nemici, egoisti e impuri. Vincere il male con il bene è il sistema pedagogico della Divinità. Ma l’esortazione dell’apostolo vuole essere ancor più ampia nelle sue applicazioni, deve diventare un principio generale che regga tutto quanta la condotta dei credenti. “Vinci il male con il bene”, cioè le energie che sono in noi ci rendano vincitori sul male, qualunque esso sia e da chiunque provenga. Noi sappiamo ciò che fece Orfeo quando giunse vicino all’isola delle sirene che ammaliavano con le loro melodie i marinai e poi li uccidevano. Egli non foce come Ulisse che colò della cera nelle orecchie dei compagni, egli prese la lira e cantò e così con le note più soavi ripetute dall’aria e dalle onde, vince il canto delle sirene. Soffochiamo il male con il vigoroso intervento del bene, vinciamo il male con il bene, rendiamo vane le manifestazioni del male, opponendo le manifestazioni del bene scongiuriamo le ossessioni del male. Ma per ottenere tutta questa forza, che da soli non potremmo mai avere, chiediamo a Dio l’aiuto e allo Spirito Santo. Solo così riusciremo nel nostro intento e trionferemo con Gesù che al male oppose sempre il bene, che all’odio rispose con l’amore.

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Negli Atti degli Apostoli al cap 7:56 è descritto il martirio di Stefano e della sua fine è detto: “Egli, essendo ripieno dello Spirito Santo, fissati gli occhi al cielo… disse: ‘Ecco io vedo i cieli aperti’.” Egli fu ucciso per mezzo della lapidazione, cioè di una morte terribile, colpito dalle pietre fino ad essere ucciso, una morte piuttosto lenta se non si viene colpiti subito al capo. E l’accenno allo Spirito Santo di cui Stefano era pieno, qui ha una significato speciale. Lo Spirito che si manifestava così, era lo Spirito promesso dal Redentore ai discepoli per i giorni della persecuzione e della crisi. In quei giorni lo Spirito ha concesso ad alcuni fedeli il dono di una parola sapiente ed infiammata; ad altri una resistenza fisica insospettata. A Stefano invece lo Spirito, per fortificarlo, concede una visione. Però la visione non sarebbe stata possibile senza un atteggiamento particolare del martire: il cielo si aperse perché Stefano aveva fissato gli occhi al cielo e con tale intensità e fede che il cielo fu costretto ad aprirsi. Il cielo aperto è il simbolo di quell’aiuto che, di quel soccorso divino di cui noi abbiamo tanto bisogno. Qualunque sia la sofferenza del nostro cuore, o il male che ci insidia, o il dolore che ci affligge, o il pericolo che è in agguato, o lo spasimo che ci strazia, noi abbiamo pensato che a volte il cielo ci sembra chiuso e che la nostra preghiera sembra ritornare a noi, respinta da un cielo di piombo. Ma domandiamoci se abbiamo fissato il cielo abbastanza e non abbiamo invece rivolto lo sguardo esclusivamente su quell’aiuto che speravamo di ottenere con le nostre forze o dai nostri amici o dalla sapienza umana o dalle energie umane. Invece, in quei momenti decisivi, fissiamo gli occhi al cielo, con l’insistenza e l’ostinazione di una fede che non si arrende, ed allora i cieli si apriranno e vedremo anche noi “la gloria di Dio e il Figliuolo dell’Uomo in piedi, alla destra del Padre.” In piedi: pronto cioè a portare l’aiuto e la grazia all’anima che implora.

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Gesù, nel vangelo di Matteo al cap. 24:11 dice queste parole: “Molti falsi profeti sorgeranno e sedurranno molti.” Anticamente i profeti, sotto l’ispirazione potente di Dio, rivelavano al popolo il pensiero, la volontà, l’amore di Dio; i falsi profeti invece presentavano, come espressione della verità divina, le loro proprie teorie, spesso del tutto opposte alla rivelazione dell’Eterno. Come già presso l’antico Israele, così i falsi profeti hanno continuato a esercitare la loro azione a danno della chiesa di Cristo e la esercitano ancora oggi. Alcuni travisano la dottrina cristiana sotto pretesto di renderla più accetta a un secolo progredito; altri le tolgono la sua aureola soprannaturale, studiandosi di ridurla, per chi ha smarrito il senso del divino, a proporzioni assolutamente umane. Altri pretendono di essere stati i soli ad aver compreso il Cristo e, scegliendo dall’Evangelo quel santo che conviene e lasciando da parte l’essenziale, cercano di accreditare le loro particolari teorie morali o sociali, ponendole sotto l’autorità di Gesù. Altri annunziano che ormai il cristianesimo è superato e che, dopo aver fatto il suo tempo, deve cedere il posto alla parola dell’età presente. E molti sono sedotti, ma da che cosa? Se consideriamo attentamente vediamo che sono sedotti da un’apparenza, l’apparenza della verità, della novità e dall’apparenza dell’energia spirituale. Il miglior modo quindi per non farsi attrarre da quelle seduzioni è di opporre a tutte quelle vane apparenze, una realtà sempre più profonda di fede. Quando avremo una fede che sia veramente nostra, che sia frutto del nostro sentimento, del nostro pensiero, della nostra esperienza; una fede che sia nata dalla crisi morale e dall’angoscia, essa non vacillerà più qualunque sia l’apparente prestigio o la moda delle dottrine con le quali i falsi profeti cercheranno di sedurci.

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Durante i lunghi pellegrinaggi che Israele compieva almeno una volta all’anno per andare a Gerusalemme, esso doveva affrontare un lungo, duro, pericoloso cammino, e allora tutti cantavano per trovare forza e incoraggiarsi a vicenda. Uno di questi canti è il Salmo 121 dove ai versetti 3 e 4 troviamo queste parole: “Colui che ti protegge non sonnecchierà, né dormirà.” L’aiuto dell’Eterno è un aiuto vigile, fedele, costante. Com’è diverso da quello che gli uomini ci offrono e che noi offriamo loro! Quando offriamo agli altri il nostro aiuto non ci manca la sincerità, il nostro slancio è schietto. Non è l’amore che manca, perché se rechiamo soccorso ai fratelli, non è solo per soddisfare la nostra sensibilità o perché vogliamo vedere intorno a noi gente serena e sorridente, ma è perché amiamo. Non manca nemmeno il disinteresse perché non speriamo il contraccambio da chi soffre, quello che ci manca è la costanza nell’aiuto offerto con tanta spontaneità. Infatti quante volte l’abbandono, l’oblio, la fine di tante amicizie e la fragilità di tanti aiuti umani promessi generosamente ci hanno fatto soffrire più del dolore e dell’angoscia del nostro cuore. E ora a quell’incostanza paragoniamo la costanza dell’aiuto divino. Ricordiamoci del popolo d’Israele: quante volte aveva abbandonato l’eterno, dandosi all’idolatria o a pratiche malsane, o altro! Eppure, se tornava pentito, trovava il Signore pronto ad accoglierlo, sempre costante nella sua infinita misericordia. A volte noi diciamo di essere stati abbandonati da Dio, ma rientriamo in noi stessi e domandiamoci se non siamo stati noi ad allontanarci da Dio, abbandonando la sua parola, le sue leggi, i suoi comandamenti. Quello che è certo è che ogni volta che siamo tornati a Lui pentiti, Lo abbiamo trovato con le braccia aperte, in attesa, pronto ad accoglierci. E ora se siamo tornati per sempre Egli sarà costante nel suo aiuto. La sentinella, vinta dal sonno, può per un momento chiudere gli occhi, la madre, presso il lettino del suo bimbo malato, può assopirsi vinta dalla fatica, ma “Colui che ti protegge non sonnecchierà, né dormirà.”

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L’apostolo Paolo nella sua lettera agli Ebrei cap. 11:27 scrive: “Mosè stette costante, come vedendo Colui che è Invisibile.” Noi tutti conosciamo la storia di Mosè, il bambino ebreo che la madre, sapendo che purtroppo suo figlio sarebbe stato ucciso come tutti gli altri, durante la strage degli innocenti, lo mise in un canestro e lo appoggiò fra le canne del fiume nel punto in cui la figlia del Faraone andava a fare il bagno. Il bambino fu salvato dalle acque, ed appunto per questo fu chiamato Mosè, e crebbe alla corte del Faraone in mezzo alle ricchezze e alla potenza. Ma quando il Signore lo chiamò per portare fuori d’Egitto gli Ebrei, egli abbandonò tutto e scelse di vivere con il suo popolo, lottando e soffrendo con esso. Ora, possiamo vedere che la prosperità non infiacchì il suo carattere, né la sventura e la lotta lo abbatterono mai. Egli stette costante perché vedeva con l’occhio della fede “Colui che è Invisibile.” L’espressione di Mosè è stata ripetuta durante i secoli da tutti coloro che, come lui, contemplavano l’Invisibile. Rimasero costanti nei giorni delle lotte morali e spirituali, perché avevano in loro un’energia che attingevano direttamente da loro contatto con l’energia divina. Rimasero costanti nei giorni della prosperità perché anelavano ai beni superiori a tutti quelli che il mondo poteva offrire loro, e rimasero costanti nei giorni della sventura perché conoscevano la fonte suprema del conforto divino. Infatti quale conforto è sapere che “l’uomo si agita, ma è Dio che lo conduce.” Quale conforto sapere che in ogni tempo e in ogni luogo possiamo andare incontro alla prova con fiducia, con la sicurezza che Dio interverrà al momento opportuno e ci darà la possibilità di uscire dalla situazione difficile in cui ci troviamo! Se anche per noi l’Invisibile è diventato Visibile, con l’occhio della fede, Dio si rivelerà e ci guiderà a un porto sicuro.

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L’apostolo Pietro nella sua 1a lettera al cap. 2:12 raccomanda ai cristiani: “Avendo una buona condotta fra i Gentili.” I Gentili, ai tempi di Gesù, erano i pagani, e l’apostolo, dicendo così, esortava i credenti affinché la loro buona condotta potesse indurre i Gentili a glorificare Iddio. I cristiani antichi accolsero l’esortazione dell’apostolo, che era un’eco delle esortazioni di Gesù, ed infatti la loro vita fu l’argomento più forte per condurre alla fede coloro che non conoscevano Cristo. Anche un vescovo martire del secondo secolo diceva così: “L’albero si riconosce dai suoi frutti e così quelli che fanno professione di cristianesimo si riconosceranno dalle loro azioni.” E infatti la nostra opera non deve consistere nella sola professione di fede, ma la nostra vita deve testimoniarla con perseveranza fino alla fine. Infatti è meglio essere cristiani senza dirlo che dichiararsi tali senza esserlo di fatto. E’ buona cosa insegnare, ma a condizione che il maestro operi in conformità di quello che insegna. Ignazio d’Antiochia diceva “nel tempo in cui siamo”, i credenti di tutti i secoli ripetevano “nei tempi in cui siamo”, ed anche noi possiamo dirlo, pensando alla nostra età travagliata. In un mondo paganeggiante il solo apostolato che possa convincere gli increduli è quello della nostra vita. Ancora oggi il cristianesimo, dove si impone, porta dei frutti, e dove non si impone è perché è diventato solo una parola vana. Uno scienziato diceva: “La conciliazione fra il mondo moderno e la fede avverrà il giorno in cui i cristiani vivranno il loro cristianesimo.” Cari fratelli credenti, riflettiamo, la nostra responsabilità di fronte a Dio è immensa. Preghiamolo perché ci accordi il suo aiuto nella nostra testimonianza.

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Nella lettera agli Efesini cap. 4:32 l’apostolo Paolo scrive: “Perdonatevi a vicenda, come anche Dio vi ha perdonati.” Dio ci ha perdonato quando, pur essendo indegni, ci siamo avvicinati Lui chiedendo misericordia. Ci ha perdonato nel modo più completo; tutte le nostre colpe sono state cancellate, anche il nostro peccato che era “rosso come lo scarlatto, è diventato bianco come la neve.” (Isaia 1:18) Egli ci ha perdonato quando noi respingevamo il suo perdono. E come Dio ha perdonato noi, così noi dobbiamo perdonare i nostri fratelli, sì, dobbiamo farlo con la stessa misura e carità perché una cosa egli non perdonerà, non perdonerà che noi non perdoniamo. Allora, siamo disposti a perdonare? L’offesa è stata grave, è vero, ma noi, noi siamo senza peccato? Dobbiamo perdonare completamente, non solo, ma oltre che perdonare, dobbiamo amare chi ci ha offeso. Dobbiamo addirittura pregare per chi ci ha offeso, e dobbiamo dimenticare, perché se non siamo disposti a dimenticare, non abbiamo dimenticato. Infatti, spesso si dice: “Perdono, ma non dimentico.” Questo non è perdonare, il cuore che non dimentica è un cuore che non perdona. Spesso cerchiamo di giustificare il nostro risentimento, ma non troviamo attenuanti al nostro rancore. Spesso la condotta del nostro prossimo è meno malvagia di quanto pensiamo, e forse la nostra condotta è meno buona di quanto crediamo. E allora rivolgiamoci al Signore e chiediamogli di aiutarci a seguire di più e meglio il nostro Salvatore che, sulla croce, perdonava i suoi carnefici.

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Gli apostoli di Gesù pregavano così: “Signore, aumenta la fede.” Questa preghiera la troviamo nel vangelo di Luca 17:5. E questa è la medesima preghiera che gli rivolgiamo noi, anzi, quanto più noi che siamo così deboli, titubanti, incerti. Noi abbiamo una fede che ondeggia continuamente, non è abbastanza forte, è una fede teorica, ma che non si manifesta in azioni, in opere. Abbiamo fede, ma viviamo come se non ne avessimo, perché l’avvenire ci sgomenta, non sappiamo abbandonarci con fiducia nelle sue braccia, le nostre preghiere sono agitate dal dubbio e abbiamo paura della morte. Quella verità alla quale diciamo di credere, ha soltanto sfiorato il nostro intelletto, la nostra coscienza, il

nostro cuore, non s’è impossessata della nostra vita e per questo essa langue. Chiediamo anche noi al Signore che ci aumenti la fede, perché senza di essa la vita cristiana, con tutti i suoi doveri, è cosa che non si può attuare. Non c’è che la fede totale nel Vangelo che ci possa rendere capaci di ubbidire al Vangelo. Se la fede aumenta, aumenta in noi anche la forza di combattere il male, di perseverare nelle vie del bene, di soffrire con pazienza, di amare i nostri fratelli, di dare un buon esempio al mondo che, ormai, non sa più che cos’è la bontà. Se Dio ci aumenta la fede, allora potremo compiere tutte le opere che trascuriamo e superare tutti gli ostacoli che ci turbano. Chiediamo al Signore di aumentarci la fede, affinché Egli stesso possa ascoltare il nostro grido e le nostre supplicazioni. Se aumenterà la nostra fede, aumenterà la nostra gioia e dalle nostre labbra salirà un inno di gloria e di ringraziamento al nostro Padre Celeste che veglia su noi e ci protegge.

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“Voi non potete seguire Dio e Mammona”, Luca 16:13. Nel vangelo di Luca sono riportate queste parole di Gesù. Mammona, nella lingua aramaica parlata in Palestina ai tempi di Gesù, significava “ricchezza”. Il senso della parola di Gesù è chiarissimo, quindi noi non possiamo servire Dio e allo stesso tempo essere schiavi del proprio denaro. L’unica assorbente preoccupazione del denaro è dannosa perché rende il cuore insensibile alle cose spirituali, essa riduce l’uomo a un egoista, soffoca la speranza, l’entusiasmo, ci rende incapaci di essere generosi, di credere e di amare. Vi sono persone schiave del denaro che dicono di seguire Gesù, e lo seguiranno, ma lo seguono a modo loro, non come il Maestro divino vorrebbe, cioè senza portarsi dietro il fardello delle preoccupazioni che il denaro procura. Anzi, io ho constatato personalmente che alcune persone erano generose quando avevano poco, ma che, se per un caso fortuito, di una vincita o un’eredità ottenevano una certa agiatezza, diventavano piano piano egoiste e avare. Quindi questa gente non segue certo Gesù come lo seguivano Levi, Pietro, Giacomo, Giovanni, Lazzaro, Marta, Maria e altri, ma se lo segue, lo segue con il cuore e la mente rivolti alle realtà presenti, ai beni e alle gioie che il danaro può dare. Anche Giuda lo seguiva, ma come? Teneva stretta la borsa in cui era custodito quel poco che potevano avere tutti gli apostoli, quel Giuda che è stato capace di tradire Gesù per denaro, trenta denari!

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Nel 1° Libro di Samuele al cap. 3:9 è raccontato l’episodio del giovinetto Samuele. La sua storia è molto bella. Anna, sua madre, era una donna sterile che soffriva molto per questo. Un giorno andò nel tempio a pregare piangendo chiedendo al Signore di dargli un figlio. Se fosse stata esaudita lo avrebbe consacrato al sevizio di Dio nel tempio santo. Ebbe il bimbo e, appena fu possibile, lo condusse nel tempio e lo affidò al sacerdote Eli. Il bambino crebbe ed era molto obbediente e zelante nella cura del tempio sacro. Una notte in cui tutto era silenzio intorno a Silo, le sette fiamme del candelabro ancora ardevano e il sacerdote e Samuele dormivano, a un tratto il ragazzo si svegliò udendo una voce che lo chiamava, corse dal sacerdote pensando che lo avesse chiamato lui, ma Eli non lo aveva chiamato. Così successo ancora una volta, ma il sacerdote capì che era Dio che chiamava il ragazzo e gli suggerì di rispondere, la prossima volta: “Parla o Eterno, perché il tuo servo ascolta.” E Dio parò rivelandogli ciò che sarebbe successo in futuro. Potessimo ascoltarla noi, la voce di Dio! Vorremmo che ci parlasse del suo amore, del nostro Redentore che è vivente in noi, e che nell’ultimo giorno, ci darà la vita eterna. Vorremmo sentirlo parlare del perdono per la nostra fragilità e per la nostra indegnità. Vorremmo anche sentire chiaramente cosa possiamo fare per Lui, per la sua opera e per far conoscere il suo nome e il suo amore a tutti gli uomini. Ma se noi viviamo spesso in comunione con il Signore, sentiremo certamente nel nostro cuore la sua dolce voce.

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L’apostolo Paolo, rivolgendosi a Timoteo, suo discepolo prediletto, nella 1a lettera cap 1:12 scrive: “Io rendo grazie a Cristo.” Paolo rendeva grazie a Gesù per averlo stimato degno dell’apostolato e per avergli concesso la forza di compiere il suo ministero. Noi gli rendiamo grazie umilmente perché si è rivelato nella sua parola e per averci chiamato a seguirlo. E perché la nostra gratitudine sia più viva non pensiamo a ciò che ha fatto per noi, perché ciò è superiore ad ogni comprensione umana e non ci sono espressioni adatte per descriverlo. Pensiamo invece a come sarebbe la nostra vita senza di Lui, il nostro Maestro, il nostro Salvatore. Se Gesù non ci fosse venuto incontro continueremmo a camminare nel buio, senza un raggio di luce che illuminasse il nostro cammino, non avremmo conosciuto la sua consolazione nell’angoscia, né la forza per superare gli ostacoli, né la pace interiore, né la speranza nell’aiuto divino, né il coraggio di fronte alla morte. Saremmo ancora schiavi delle nostre passioni e non saremmo capaci di resistere alle tentazioni, come invece possiamo fare con l’aiuto dello Spirito Santo. Inoltre, nessuno avrebbe dato la sua vita per noi e saremmo perduti. Per questo la nostra riconoscenza non sarà mai abbastanza profonda né abbastanza grande la nostra lode. Noi rendiamo grazie a Gesù Cristo!

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Apocalisse 22:5: “Non ci sarà più notte.” Nei suoi scritti l’apostolo Giovanni ci descrive ciò che non ci sarà nella nuova terra ed è senz’altro consolante ciò che dice. Infatti nella nuova terra non ci sarà più la morte, né più cordoglio, né grido, né dolore, né alcuna cosa maledetta e non ci sarà più notte. Tutto quello che su questa terra è argomento di timore e di angoscia, lì, non ci sarà più. Sia lodato il Signore! Soprattutto è consolante sapere che non ci sarà più notte, le tenebre che a volte ci spaventano: tenebre intellettuali, tenebre morali e tenebre spirituali. Non ci saranno più notti del cuore che ama senza essere riamato. Notti dell’anima quando la fede viene meno, notti della ragione che si smarrisce pensando a problemi insolubili. Notti della coscienza quando non si sente più la voce del dovere, notti dell’avvenire quando ignoriamo cosa avverrà domani, notti lunghe senza riposo, senza pace, sconvolti dal pensiero dell’incredulità, del peccato, della morte. Tutte quelle notti non ci saranno più, saranno scomparse, non vi sarà che luce, luce eterna insieme al nostro Dio.

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Romani 6:22: “Siete stati affrancati dal peccato e fatti servi di Dio.” L’uomo deve in qualunque modo servire, portare un giogo. Il Cristo ne è talmente convinto che tutta la sua opera per l’uomo mira a questo scopo: strapparlo al giogo che lo conduce alla morte e imporgli il giogo dolce del Signore che lo conduce alla vita. Se l’uomo si fa servo di Dio, vi sono dei peccati che non può commettere, vi sono delle colpe e delle tentazioni che non esercitano più su di lui alcun fascino. Prima era predisposto al male, ora è predisposto al bene. Le buone azioni che il suo cuore desidera lo portano a compiere le buone azioni che lo spingono a desiderare il bene e a trovare la sua felicità in Dio. E così diventa non lo schiavo, ma il figlio perché soltanto l’amore l’incatena, perché il giogo che è sulle sue spalle gli è imposto da un Padre. Ha messo la sua libertà nelle mani di Dio perché ne facesse l’uso che egli non aveva saputo farne. Ne avrà un immenso beneficio perché diventerà migliore e soprattutto felice. Beati quegli uomini che di fronte al mondo e al peccato avranno rivendicato la loro libertà suprema di non ubbidire che a Dio.

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Giovanni 7:37: “Se alcuno ha sete venga a me e beva.” Se si accetta il dolce invito di Gesù non ce se ne potrà pentire mai. Infatti abbiamo sete di felicità, di amore, di perdono, ma finché ci siamo rivolti alle cisterne screpolate che sono nel mondo, non abbiamo mai potuto estinguere la sete. Abbiamo cercato, nella nostra illusione, di dissetarci alle fonti della gioia, dei piaceri mondani, della sapienza umana, ma siamo rimasti amaramente delusi. Alla fine, vedendo che tutto era inutile, abbiamo smesso di cercare e abbiamo aspettato che qualcuno avesse pietà di noi. E’ stato allora che abbiamo ascoltato la dolce parola di Gesù: “Vieni a me.” E ora vicino a Lui si sono appagati tutti i bisogni della nostra anima. Quello della carità infinita, della felicità, dell’armonia, del perdono, della vita eterna nella nostra unione indissolubile con il Signore che è non soltanto verità, ma la via e la vita. Abbiamo sperimentato la verità della sua parola: “Chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete.”

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